Il territorio - Giovanni Nigro Studio di Fisioterapia
preloader

Campobello Di Licata

Situata a 40 chilometri da Agrigento e Caltanissetta, Campobello di Licata appare agli occhi dell’occasionale visitatore immersa tra verdi colline, ricche di vigneti e frutteti, e campi coltivati soprattutto a grano e legumi, intervallati da moderne aziende agricole e artigianati attrezzate per la trasformazione sul posto, dei prodotti agroalimentari.
Da circa un ventennio Campobello vive un’opera di trasformazione culturale ed artistica, che si richiama alla presenza dell’artista italo-argentino Silvio Benedetto. Dal 1980 infatti è in atto una grande ristrutturazione dell’abitato nell’ottica di un progetto di “arte nel contesto urbano”, che ha visto la realizzazione di servizi e la costruzione di nuove strutture pubbliche, che hanno fatto diventare il centro uno dei più moderni dell’agrigentino, in una visione d’insieme coerente e stilisticamente unitaria.
Un esempio per tutti è il Centro Polivalente per i Servizi Socio-culturali, situato alla periferia del paese, moderno complesso che ospita diversi servizi ed attività e che è il fulcro della vita culturale della cittadina. Il Centro infatti ospita una ricca biblioteca con annessa sala di lettura, videoteca, ludoteca ed un ampio ed attrezzato Auditorium, dove si svolgono i principali incontri ed avvenimenti culturali; accoglie inoltre corsi di formazione, laboratori, conferenze e seminari. Al suo interno è collocata la Trilogia dipinta da Silvio Benedetto, che comprende: “La presa delle terre”, “La miniera” e “La semina” e, sulla balconata circolare esterna della Torre dell’Osservatorio, il “Micro-macro cosmo”.
Campobello ha ormai da tempo assunto l’aspetto di “Città d’arte” per le numerose opere dell’artista, che si è cimentato nella realizzazione di piazze, spazi verdi attrezzati, fontane, sculture, ceramiche e murales fino alla grandiosa opera all’aperto costituita da 110 massi policromi dedicati alla Divina Commedia (“Valle delle pietre dipinte”). Un primo esempio è costituito dai murales della Scuola Materna di via Edison unitariamente intitolati “I mille bambini”, dove le mamme campobellesi possono riconoscere i loro figli ritratti. Un altro esempio è la piazza XX Settembre, dove la chiesa Madre si specchia nella splendida pavimentazione della piazza aperta da due statue bronzee raffiguranti la “Donna con la quartara” e “Il seminatore”. Sempre nella stessa piazza la facciata del Palazzo Municipale fa da sede ad un altro grande murales rappresentato nei sei spazi in cui il prospetto è suddiviso: “Il mondo pagano ed il mondo cristiano”, “La partenza dell’emigrato”, “Il lavoro della vigna”, “Le donne alla fontana”, “La lotta fratricida tra Caino ed Abele” e “La zolfara”. Poco distante, in piazza Aldo Moro, una incantevole “Fontana delle fanciulle”, con marmi lavorati, pietre grezze e bronzi rappresenta una sorta di continuità artistica con piazza XX Settembre.
Sono le piazze, dunque, la vera sorpresa di Campobello di Licata per la loro bellezza e per la loro abbondanza. Piazza Tien An Men e Togliatti, vere e proprie Agorà del paese, dove Silvio Benedetto ha voluto celebrare sia il lavoro manuale sia quello intellettuale: due grandi mani di bronzo, una serie di attrezzi da lavoro, anch’essi in bronzo, e un grande obelisco alla cui base sono scolpiti alcuni brani di Omero, Dante, Shakespeare e Goethe.
Poi ancora murales e sculture in piazza Martiri di Modena e in via Momigliano. L’opera più grandiosa, paragonabile per bellezza ed imponenza a una cattedrale barocca, è la già citata “Valle delle pietre dipinte”.

Agrigento

Il territorio agrigentino è stato abitato fin dalla preistoria, come dimostrano le testimonianze riferibili all’età del rame e del bronzo, individuate nelle immediate vicinanze della città attuale.

La nascita della polis è legata allo sviluppo della polis Gela, infatti la città fu fondata nel 581 a.C. da alcuni abitanti di Gela, originari delle isole di Rodi e di Creta, col nome di Ἀκράγας (Akragas), dall’omonimo fiume che bagna il territorio. La fondazione di questa polis nasce dalla necessità che avvertirono i Geloi (antichi gelesi), circa cinquant’anni dopo la fondazione della colonia megarese di Selinunte, di arginare l’espansione di questa verso est; scelsero perciò di collocare la città tra i fiumi Himeras e Halykos, e le diedero il nome del fiume presso il quale sorse il centro urbano, al quale la collocazione tra i due fiumi e a circa 4 chilometri dal mare dava “tutti i vantaggi di una città marittima” (Polibio). La fondazione di Akragas, isolata su una costa non così visitata da Greci come quella orientale, presuppone una larga frequentazione di quell’area, abitata da Sicani, da parte di navigatori egei ed una favorevole disposizione dei potenti sicani verso i Greci. Lo sviluppo di Gela e di Akragas, colonie di Greci dotati di lunga esperienza marittima, è dipeso soprattutto dalla ricca produzione agricola, specialmente cerealicola, di un territorio le cui estese pianure favorivano anche l’allevamento dei cavalli; ed il nerbo dei loro eserciti era di fatti la cavalleria, specialità militare tipica delle aristocrazie greche. Ma la prossimità a grandi vie marine era per loro un’esigenza vitale, come per tutte le colonie greche, a cui la navigazione assicurava la continuità dei contatti con la madrepatria e l’incremento degli scambi commerciali, ed equilibrava la sproporzione numerica dei coloni con le popolazioni autoctone tra le quali essi vivevano.

Il periodo greco durò circa 370 anni, durante i quali Akragas acquistò grande potenza e splendore, tanto da essere soprannominata da Pindaro “la più bella città dei mortali”, come testimonia la meravigliosa Valle dei Templi. Inizialmente si instaurò la tirannide di Falaride (570-554 a.C.) che fu caratterizzata da una politica di espansione verso l’interno, dalla fortificazione delle mura e dall’abbellimento della città. Tuttavia Falaride fu meglio conosciuto per la sua crudeltà e spietatezza e per l’uso del toro di bronzo come strumento di tortura per le vittime sacrificali. Il condannato veniva posto al suo interno e del fuoco riscaldava continuamente il toro finché egli non moriva ustionato. Durante l’agonia la vittima emetteva dei lamenti che, come dei muggiti, fuoriuscivano dalla bocca del toro. Il suo ideatore, Perillo, fu il primo a provarne gli effetti. Odiato dal popolo, Falaride morì lapidato e, poiché egli amava vestirsi di azzurro, vennero proibite le vesti di quel colore.